Perché è importante fermare il gas flaring

Nel dicembre del 2023, durante la COP28, una cinquantina di società petrolifere hanno preso l’impegno a porre fine al gas flaring, quella pratica che prevede la combustione del metano estratto insieme al greggio. A volte infatti, per ragioni economiche, si preferisce bruciare il metano in eccesso anziché recuperarlo, dato che realizzare delle infrastrutture per catturarlo e trasportarlo risulterebbe più costoso e dunque sconveniente. Così facendo, però, si va ad aggravare il problema del riscaldamento globale: il metano è un potente gas serra, il secondo più abbondante nell’atmosfera; e anche se vi rimane per molto meno tempo rispetto all’anidride carbonica – il flaring produce anche CO2, comunque –, nel breve periodo ha un impatto climatico superiore. Nell’immediato una tonnellata di metano “intrappola” circa cento volte più calore di una tonnellata di anidride carbonica, circa ottanta volte nell’arco di ottant’anni e quasi trenta volte in cento anni. Il metano però resta nell’atmosfera per una decina d’anni, mentre la CO2 per secoli.
Contrastare il rilascio di metano è quindi un modo per contenere da subito il riscaldamento globale, al quale questo gas serra contribuisce per circa il 30 per cento. Come ha scritto l’Atlantic Council, le emissioni annuali di metano e anidride carbonica associate alla filiera oil & gas e dovute a perdite e a pratiche intenzionali sono più del doppio delle emissioni del trasporto aereo.
Nonostante l’impegno preso alla COP28, tuttavia, nel 2023 si è registrato un aumento della quantità di gas bruciato tramite flaring: uno studio della Banca mondiale dice che si è arrivati a 148 miliardi di metri cubi, 9 miliardi in più su base annua e il valore più alto dal 2019. Ciò ha comportato un’aggiunta di 23 milioni di tonnellate di emissioni equivalenti di CO2, grossomodo quanto prodotto da cinque milioni di automobili in strada.
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