Che cosa ne sarà dell’Alaska

Marco Dell'Aguzzo
3 min readDec 8, 2020
Un impianto della compagnia petrolifera statunitense ConocoPhillips nel North Slope, in Alaska.
Un impianto della compagnia petrolifera statunitense ConocoPhillips nel North Slope, in Alaska.

Voglio una transizione dall’industria petrolifera». È una frase dal significato enorme ma Joe Biden, durante l’ultimo dibattito con Donald Trump prima di vincere le elezioni, l’ha pronunciata con una tale, apparente avventatezza che avrà fatto sobbalzare sulla sedia parecchi telespettatori in Texas o in Pennsylvania. L’estrazione del petrolio e del gas dalle rocce di scisto, il fracking, ha reso l’America una superpotenza energetica e creato migliaia di posti di lavoro. Biden non ha intenzione di bandirla e sa che gli idrocarburi non scompariranno da un giorno all’altro, ma vuole che il paese azzeri le proprie emissioni nette di gas serra entro il 2050: il distacco dal greggio sarà inevitabile.

L’Alaska è lontana dal vero cuore dell’oil boom, il bacino Permiano, ma anche qui i combustibili fossili contano tanto, tantissimo. L’economia dell’“Ultima frontiera” – lo stato più remoto e più grande degli Stati Uniti, e anche uno dei meno abitati – si basa su tre cose: il petrolio, il gas e il salmone. Le entrate dell’industria petrolifera rappresentano oltre il 65 per cento del bilancio e vengono redistribuite tra la popolazione, il cui reddito pro capite è il terzo più alto della nazione. Se però trent’anni fa l’Alaska valeva un quarto della produzione americana, con picchi di oltre due milioni di barili al giorno nel 1988, nel 2019 ne riempiva appena 466mila ogni ventiquattr’ore: il 3 per cento del totale.

Tuttavia, nel 2017 il governo ha stimato che nel sottosuolo del North Slope, una regione dell’Alaska settentrionale, si nascondano quasi 9 miliardi di barili di petrolio e 25 trilioni di piedi cubici di gas. Un’enormità, se dovesse essere vero. Così, lo scorso agosto l’amministrazione Trump ha approvato un piano per permettere l’esplorazione di idrocarburi nella pianura costiera dell’Arctic National Wildlife Refuge, la più grande area protetta degli Stati Uniti. La (serrata) tabella di marcia prevede, per dicembre, l’inizio di un rilevamento sismico che faccia da preludio alle trivellazioni vere e proprie. Entro la fine dell’anno verranno assegnate le concessioni per lo sfruttamento. Non è detto che Biden possa fare qualcosa per impedirlo, visto che il mandato di Trump non terminerà prima del 20 gennaio 2021. O per revocarle.

La decisione dell’amministrazione Trump ha fatto infuriare gli ambientalisti, che sostengono che le perforazioni metteranno in pericolo il delicato ecosistema della tundra, abitata da orsi polari e mandrie di caribù. In Alaska i cambiamenti climatici si fanno sentire più che altrove, dato che l’Artico si sta riscaldando ad una velocità doppia rispetto alla media globale. Ma c’è chi le trivelle e le condotte le vorrebbe – anche alcune comunità di nativi –, perché l’industria oil & gas porta soldi e crea occupazione. Nel North Slope le alternative sono scarse.

Le compagnie petrolifere però non paiono granché interessate all’offerta.

L’articolo completo è stato pubblicato sul numero 127 (dicembre 2020) di IL – Il maschile del Sole 24 ORE.

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Written by Marco Dell'Aguzzo

Giornalista: mi occupo di energia e di tecnologie per la transizione ecologica. Mi trovate su Wired, Linkiesta e Startmag.

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