Una tecnologia può cambiare l’eolico in Italia

L’Italia ha tanto mare ed esistono dei luoghi dove c’è sempre vento. L’eolico offshore va fatto a quaranta chilometri dalla costa, creando delle grandi piattaforme». Le recenti parole del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin suonano come un incoraggiamento a un settore – quello dell’eolico, appunto – che chiede da anni proprio un maggiore sostegno politico nella forma di semplificazioni burocratiche, certezze nelle tempistiche autorizzative e coerenza tra gli indirizzi energetici nazionali e i pareri delle soprintendenze locali, che spesso ostacolano i progetti rinnovabili per ragioni di impatto paesaggistico.
Pichetto ha parlato di parchi eolici posizionati a quaranta chilometri dalle coste, lontani dalla vista, la cui realizzazione richiede però un «sistema produttivo» appropriato, come specificato dallo stesso ministro: «per fare l’eolico offshore è necessario attrezzare un porto, avere delle navi specifiche destinate a questo», cioè alla costruzione di «grandi piattaforme».
L’Italia è molto indietro nell’eolico offshore. Al 2022 risultava una capacità installata di appena 30 megawatt, lontanissima dagli 8 gigawatt della Germania; l’obiettivo per il 2030, tra impianti a fondo fisso e galleggianti, è di 2,1 GW. Come ha sottolineato un recente studio di The European House – Ambrosetti, nel PNIEC (il Piano nazionale integrato energia e clima) è previsto che i parchi eolici in mare contribuiscano solo per il 2 per cento al target di potenza rinnovabile installata al 2030.
L’eolico offshore ha costi e complessità maggiori di quello sulla terraferma (detto onshore), ma offre anche tre vantaggi notevoli. Innanzitutto, permette di sfruttare un potenziale ventoso più elevato e generalmente più stabile. Permette di installare turbine più grandi e potenti, che generano più energia. E permette, infine, di fare tutto questo contenendo l’impatto visivo.
«L’Italia ha tanto mare», ha ricordato il ministro Pichetto, eppure sull’eolico offshore siamo decisamente in ritardo. Ciò è dovuto non solo ai lunghi tempi per le autorizzazioni e alle difficoltà tecnico-infrastrutturali per la connessione degli impianti alla rete elettrica. Ci sono anche delle ragioni di possibile interferenza delle turbine con le aree naturali protette e con le rotte di navigazione. E ci sono una serie di vincoli metereologici e geologici.
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