Il petrolio di fronte alla pandemia da coronavirus

Marco Dell'Aguzzo
2 min readMar 24, 2020
Una miniera di sabbie bituminose in Alberta, Canada.
Una miniera di “oil sands” in Alberta, Canada. Da queste sabbie si estrae un bitume molto denso tramite processi complicati e costosi, anche dal punto di vista dell’impatto ambientale.

Hard times, who knows better than I?», si chiedeva Ray Charles in una famosa canzone. Oggi sono tempi duri per l’economia a causa del nuovo coronavirus, e nessuno lo sa meglio dei produttori di petrolio.

Ah: la canzone si chiama “Hard Times (No One Knows Better Than I)” e viene da un gran disco, “The Genius Sings the Blues”. È su Spotify. Consigliatissimo.

Voli sospesi, limitazioni agli spostamenti, produzione interrotta in molti impianti industriali: la COVID-19 ha abbattuto la domanda di greggio, in realtà indebolendo una richiesta fiacca già prima dell’epidemia. Ad aggravare ulteriormente il quadro è arrivata poi la “guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia e, con questa, la promessa di un forte aumento dell’offerta su un mercato poco ricettivo. Il valore dell’oro nero è così inevitabilmente precipitato, arrivando a toccare i 24 dollari al barile circa.

Uno dei motivi che ha spinto la Russia a rifiutare l’accordo sui tagli all’output al vertice del 6 marzo – il prologo dello scontro Riad-Mosca – era l’intenzione di danneggiare gli Stati Uniti. Grazie infatti allo sviluppo del fracking e della perforazione orizzontale – tecniche che consentono di estrarre idrocarburi da rocce particolari, dette scisti o shale – l’America è diventata la prima produttrice al mondo di petrolio e di gas naturale, superando rispettivamente l’Arabia Saudita (nel 2018) e la Russia (nel 2011). Appena quattordici anni fa gli Stati Uniti importavano il 60 per cento del greggio che consumavano, mentre oggi sono sulla strada per diventarne degli esportatori netti. È evidente per quale motivo Mosca, ma anche Riad, considerino Washington una minaccia ai loro interessi.

Un gigante dai piedi d’argilla

Nonostante l’America abbia raggiunto una potenza energetica impressionante, la sua industria petrolifera è però particolarmente vulnerabile agli effetti della “guerra dei prezzi”. Rispetto ai russi e ai sauditi, la maggioranza dei produttori statunitensi deve infatti far fronte a costi di estrazione molto più alti: tradotto nella pratica, hanno bisogno di prezzi al barile intorno ai 50–60 dollari per riuscire a ricavare profitti.

«Forti avversità»

Se gli Stati Uniti sembrano in difficoltà, il Canada è nella disperazione. La “guerra dei prezzi” rischia di affossare l’economia dell’Alberta, la provincia canadese che concentra la maggior parte delle riserve petrolifere (le terze più grandi al mondo) e che dipende dal loro sfruttamento.

Leggi l’articolo completo su Aspenia online.

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Written by Marco Dell'Aguzzo

Giornalista: mi occupo di energia e di tecnologie per la transizione ecologica. Mi trovate su Wired, Linkiesta e Startmag.

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