La geopolitica del Green Deal europeo

Marco Dell'Aguzzo
5 min readSep 29, 2021

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Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo.
Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo.

L’articolo è stato pubblicato sul numero 96 (settembre-ottobre 2021) della rivista di geopolitica “eastwest” con il titolo “La rivoluzione verde”.

C’è mai più stato qualcosa di grandioso come le missioni che portarono, da Neil Armstrong a Eugene Cernan, l’uomo sulla Luna? Forse no. Del resto, non è un caso che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen abbia evocato proprio il programma Apollo per cercare di trasmettere l’importanza del Green Deal, il piano di Bruxelles per la riduzione delle emissioni di gas serra e il contrasto dei cambiamenti climatici. Uguagliare il sentimento di meraviglia che si prova nel guardare gli astronauti camminare su un suolo diverso da quello terrestre è impossibile, ma l’impresa europea è altrettanto ambiziosa, altrettanto epocale e altrettanto difficile.

Il «momento “uomo sulla Luna” dell’Europa», come lo ha chiamato von der Leyen, si è fatto un po’ più concreto lo scorso 14 luglio, quando la Commissione ha presentato il pacchetto Fit for 55: servirà a rendere l’Unione europea “pronta per il 55”, cioè per il taglio del 55 per cento delle emissioni inquinanti entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. In altre parole, Fit for 55 è l’insieme delle riforme che consentiranno di attuare la fase intermedia del Green Deal e che metteranno il blocco nelle condizioni di poter raggiungere la neutralità climatica – ovvero l’azzeramento netto delle emissioni – entro il 2050.

Come spiegato dall’IPCC nel suo ultimo rapporto, per contenere il riscaldamento globale e mitigare gli impatti disastrosi dei cambiamenti climatici sono necessari sforzi «su larga scala». Tagliare le emissioni significa infatti cambiare il modo in cui si genera e consuma l’energia elettrica, ripensare interi processi produttivi, alimentare diversamente i mezzi di trasporto e sviluppare altre tecnologie; nuovi settori economici nasceranno, mentre altri andranno in crisi. È in tutto e per tutto una rivoluzione industriale, radicale sia nella portata (ampia) che nelle tempistiche (strette). L’inazione non è un’opzione perché avrebbe costi ambientali e umani troppo alti, ma la transizione energetica «sarà tremendamente difficile», ha ammesso il vicepresidente esecutivo per il Green Deal, Frans Timmermans. Lo sarà anche per l’opposizione che riceverà all’interno della stessa Unione: prima di diventare legge Fit for 55 dovrà superare un periodo di trattative con gli stati membri, che tenteranno di annacquare le misure sfavorevoli ai propri interessi nazionali (ad esempio per quanto riguarda il divieto di vendita di auto a benzina o l’abbandono dei combustibili fossili).

Fit for 55 è ancora una lista di proposte, ma ha già fatto innervosire diversi governi stranieri, anche quelli alleati e vicini a Bruxelles per sensibilità climatica. Per capire perché bisogna guardare a uno degli elementi fondanti del piano: il cosiddetto “meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera” (CBAM). Si tratta in sostanza di una tassa sulle emissioni di CO2 che si applicherà sulle merci provenienti dai paesi extra-europei che non si sono dotati di politiche rigorose contro l’inquinamento atmosferico. È un dazio, quindi, da imporre sulle importazioni ad alta intensità carbonica di acciaio, alluminio, cemento e fertilizzanti, tutti settori energivori e difficili da rendere “puliti”. Il CBAM ha tre obiettivi: due sono economici e uno è geopolitico. Il primo, e più immediato, è tutelare le imprese europee dalla concorrenza “climaticamente sleale” delle aziende estere lasciate libere di produrre senza badare troppo ai gas serra. Il secondo è prevenire, rendendolo sconveniente, il fenomeno del carbon leakage, ossia la delocalizzazione delle industrie europee in territori dove le regole sulle emissioni sono più lasche. Il terzo obiettivo è essere di ispirazione per gli altri, spronando le nazioni scettiche a farsi “verdi” e quelle più caute ad alzare l’asticella dell’impegno per il pianeta, se vorranno continuare a vendere nel mercato europeo.

L’azione climatica ha un’intrinseca componente di politica estera, nel senso che la mitigazione del riscaldamento globale sarà possibile solo con il contributo adeguato di tutti. L’Unione europea, che vale appena l’8 per cento del totale mondiale delle emissioni di CO2, lo sa bene: i suoi sforzi saranno inutili se non verranno emulati dai grandi inquinatori. Il CBAM ha immediatamente scatenato la reazione negativa dell’Australia, che commercia principalmente in carbone, gas e minerali ferrosi e che pensa che «l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno ora» siano «altre politiche protezioniste». L’Economist, il punto di riferimento dei liberoscambisti, scrive che non c’è del protezionismo intrinseco nei dazi sul carbonio perché non mirano a limitare le forze di mercato ma a prevenire il cambiamento climatico, un «bene pubblico globale». Eppure Canberra è preoccupata, nonostante le esportazioni verso l’Europa rappresentino una percentuale tutto sommato trascurabile rispetto al totale: il paese non teme la misura europea in sé, infatti, quanto le sue possibili repliche in altre parti del mondo. Ma l’Australia, si potrebbe dire, è ostile alle politiche di Bruxelles perché i suoi obiettivi climatici sono bassi (è una delle poche economie avanzate a non essersi imposta una data per l’azzeramento netto delle emissioni). In parte è così, ma questa interpretazione non spiega perché il CBAM sia visto con un certo fastidio anche dagli Stati Uniti di Joe Biden, che ha elaborato un piano enorme per l’energia e il clima. Ciononostante, l’inviato speciale per il clima John Kerry disse, lo scorso marzo al Financial Times, di essere «preoccupato» per la tassa sul carbonio alla frontiera, che dovrebbe essere l’«ultima risorsa» perché «ha serie implicazioni per le economie, e per le relazioni, e per il commercio». L’America e l’Europa vogliono esattamente la stessa cosa – ridurre le emissioni fino allo zero netto nel 2050 – ma non concordano sul percorso da prendere per raggiungere la meta.

Bruxelles vuole essere la superpotenza regolatoria in materia di sostenibilità ambientale, puntando a rendere le proprie norme sulle emissioni degli standard di riferimento internazionale. Nella mente della Commissione europea il CBAM non è solo una misura restrittiva ma anche estensiva: un tassello, cioè, di un nuovo sistema di commercio mondiale climate-friendly. Porsi degli obiettivi grandi è fondamentale, ma lo è anche non perdere il contatto con la realtà. Il CBAM si regge sull’ETS, il sistema per lo scambio delle quote di emissioni. Si tratta di un mercato per la compravendita delle quote di emissione di CO2 che vengono garantite ogni anno alle aziende europee entro un tetto massimo, che non deve essere sforato (pena sanzioni) e che si abbassa nel tempo. Fit for 55 amplierà la portata dell’ETS, in modo che vada a coprire tutta una serie di settori industriali prima esclusi dal mercato delle quote, come i trasporti, e ne incentivi la decarbonizzazione.

Il prezzo del carbonio è generalmente considerato una misura efficace per diminuire l’inquinamento e combattere i cambiamenti climatici. Ma per poter funzionare su scala globale deve venire implementato ovunque e in maniera omogenea. Altrimenti come farà l’Europa a misurare la quantità esatta di emissioni generata dalle merci che si presentano alle proprie frontiere e decidere se tassarle con il CBAM? Come farà a giudicare se le politiche emissive adottate dagli altri paesi siano rigorose quanto le proprie?

Gli Stati Uniti non amano sottostare agli standard degli altri e non possiedono un mercato del carbonio a livello federale; il Partito democratico ha comunque elaborato una proposta di carbon border tax ma l’opposizione a una misura del genere da parte dei Repubblicani è fortissima, sebbene l’obiettivo sia proteggere le aziende americane e colpire le esportazioni cinesi. La Cina, grande produttrice di acciaio e cemento, ha criticato anche il CBAM europeo perché «viola i princìpi dell’OMC». La sfida climatica ha bisogno di cooperazione internazionale, ma la rivoluzione industriale verde rischia di mettere i governi uno contro l’altro.

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Marco Dell'Aguzzo

Giornalista: mi occupo di energia e di tecnologie per la transizione ecologica. Mi trovate su Wired, Linkiesta e Startmag.