Cosa può fare l’Europa per stimolare l’industria delle batterie

L’Unione europea, così come qualunque altro paese, non ha bisogno di importare la fonte di energia che fa funzionare i pannelli fotovoltaici: il Sole splende su tutta la Terra. Ma i dispositivi che permettono di convertire quell’energia in elettricità, e dunque di soddisfare concretamente i nostri bisogni, vengono prodotti solo in minima parte all’interno del mercato unico: quasi tutti arrivano dall’estero, e quasi tutti quelli che arrivano dall’estero – il 97 per cento – provengono dalla Cina. È un dato da non sottovalutare, considerato che Pechino, come ha ricordato recentemente la commissaria Margrethe Vestager, «per noi è contemporaneamente una partner, una concorrente economica e una rivale sistemica. E le ultime due dimensioni stanno sempre più convergendo». La subordinazione commerciale potrebbe degenerare in un rischio di natura politica, specialmente se si considera che oggi l’Unione europea è dipendente dalla Cina anche per un’altra tecnologia critica per la transizione green: la batteria agli ioni di litio, fondamentale per la mobilità elettrica.
Uno studio di Morgan Stanley afferma che l’Europa importa dalla Cina l’80 per cento della sua domanda annuale di batterie. Tuttavia, un rapporto dell’organizzazione ambientalista T&E sostiene che, nonostante l’attuale carenza di impianti, il Vecchio continente abbia il potenziale per rendersi autosufficiente nella produzione di celle di batterie dal 2026. Entro il 2030, l’Europa potrebbe anche produrre internamente il 56 per cento della sua domanda di catodi. Il catodo è l’elettrodo positivo della batteria e ne rappresenta il componente maggiormente “critico”: sia perché la sua produzione è complessa e dispendiosa sotto il profilo energetico, sia perché è composto da metalli preziosi come il nichel, il manganese e il cobalto (ma si stanno diffondendo chimiche alternative e più economiche come quella al litio-ferro-fosfato).
Secondo T&E, l’installazione di un’industria delle batterie in Europa permetterebbe di ridurre notevolmente l’impronta carbonica di questi componenti – tra il 37 e il 62 per cento, a seconda della quota di fonti pulite nel mix energetico comunitario – rispetto a una filiera basata in Cina. Ma emanciparsi da Pechino è difficile perché il paese ha una presa fortissima su tutta la catena del valore delle batterie, dall’estrazione delle materie prime alla lavorazione dei componenti all’assemblaggio finale delle celle; in certi anelli della supply chain, la sua quota supera l’80 o il 90 per cento del totale globale. L’Unione europea, insomma, ha le risorse (minerarie e finanziarie) e le capacità industriali per diventare una produttrice rilevante?
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