A che punto sono le comunità energetiche in Italia

Per rendere desiderabile la transizione ecologica a quante più fette di popolazione possibile, i governi stanno insistendo non solo sui benefici climatici di questo processo, ma soprattutto sui vantaggi economici che saprà garantire. L’abbandono dei combustibili fossili in favore delle fonti a basse emissioni – così dicono presidenti e ministri in Europa e negli Stati Uniti – non è soltanto spese di riconversione, lacrime e sangue; è innanzitutto occupazione, crescita e anche risparmio.
Uno degli strumenti elaborati nell’Unione europea per diffondere la convenienza della transizione tra i cittadini sono le comunità energetiche rinnovabili. Si tratta di gruppi di soggetti – persone fisiche, piccole e medie imprese, enti locali, istituti religiosi – che si associano per condividere l’energia autoprodotta da fonti rinnovabili. Il fine ultimo, come spiega Bruxelles, è la creazione di «benefici ambientali, economici o sociali». Nelle intenzioni, dunque, le comunità energetiche vanno oltre il risparmio in bolletta (garantito dal minor prelievo di elettricità dalla rete) e si propongono come mezzi di contrasto dei cambiamenti climatici e della povertà energetica, nell’ottica di una transizione “giusta” per l’ambiente e per la coesione sociale.
Le comunità energetiche sfruttano le peculiarità delle fonti rinnovabili per espandere la partecipazione al mercato degli utenti finali, che diventano prosumer, consumatori e produttori di energia allo stesso tempo. Le comunità energetiche possono essere tante e sparse sui territori perché anche le fonti rinnovabili lo sono: mentre la generazione termoelettrica da combustibili fossili è centralizzata, cioè posizionata in pochi siti di grandi dimensioni, la generazione rinnovabile è invece distribuita, ossia localizzata in molti punti con impianti spesso di piccola taglia. Da una parte una centrale a gas da migliaia di megawatt e un’estensione di centinaia di ettari, insomma; dall’altra un modesto pannello solare sul tetto di casa.
Continua a leggere su “Wired”.